Politica: Urne aperte per le elezioni europee e in alcune importanti città, per il rinnovo delle amministrazioni locali. In Piemonte si vota anche per la Regione. In Italia, la sfida va ben oltre le elezioni europee. Fermare l’autoritarismo divisivo della destra eversiva. spunti da un’intervista di Repubblica al politologo Carlo Galli, che dice senza alcun indugio: “Il premierato è la fine del Parlamento” …

Abbiamo di fronte giorni di grande importanza: urne aperte e si vota per l’elezione del Parlamento europeo, dove l’affluenza alle urne e la scelta di voto dei cittadini dell’Unione costituirà un primo indicatore sulla tenuta della democrazia in Europa… si vota anche qui da noi in alcune importanti città, per il rinnovo delle amministrazioni locali. In Piemonte si vota anche per la Regione. Inoltre, c’è l’accelerazione impressa dal governo Meloni al percorso parlamentare del Disegno di legge sull’Autonomia differenziata, che porterà il testo alla Camera già l’11 giugno per l’inizio dell’iter di approvazione, che da calendario parlamentare dovrebbe avvenire entro il 14 giugno. Tutte prove che vanno ben oltre le elezioni europee. Ciò vale anche per: «La riforma del premierato con il significato che in prospettiva in Italia, non ci sarà più la politica, ma solo una campagna elettorale feroce e poi per cinque anni la politica sarà affare di uno solo (o una sola), del/la Premier. Questo è un disegno neo-autoritario, non è sicuramente un golpe, ma è l’estremizzazione di processi già in atto da alcuni anni». Il politologo Carlo Galli atteso alla Repubblica delle Idee, il prossimo 14 giugno, tirerà le somme sui risultati delle elezioni europee e affronterà il tema delle riforme volute da governo e da Giorgia Meloni. Le discuterà con Stefano Folli su “Il premierato della discordia”. Ci si domanda ormai quotidianamente: Ma sono chiare veramente a tutti le implicazioni di questa riforma? «Nell’idea di Giorgia Meloni, il premierato comporta una preminenza assoluta del Presidente del Consiglio e un sistema in cui il Parlamento (che è il vero ‘centro’ nella nostra Costituzione della rappresentanza popolare) non peserà più nulla, secondo una tendenza già in atto (vedasi la legislazione d’urgenza imposta con decreti legge governativi), che verrebbe formalizzata e costituzionalizzata. La differenza vera è che scomparirebbero i poteri del Capo dello Stato. Oggi il Presidente della Repubblica ha il potere di designare il presidente del Consiglio e di sciogliere le camere; dopo, invece, il premier verrà eletto direttamente e non ci sarà più lo spazio per crisi di governo: o tutto funziona o si va a votare. Questo sistema non c’è in nessun’altra parte del mondo, c’è stato solo in Israele per un anno, ma è stato giudicato troppo rigido». Questo, in sintesi, il ragionamento del Prof. Galli nell’intervista in questione. E a proposito del prossimo esito del voto delle Europee, gli viene anche chiesto: quanto questo risultato “influirà su questa riforma?” «Se il risultato sarà troppo buono per Meloni, questo potrà portare dei problemi alla destra, perché un parallelo risultato scarno di Salvini potrebbe rimettere in questione gli equilibri nella maggioranza. A quel punto possiamo pensare che Meloni accelererebbe il percorso verso l’autonomia differenziata, un prezzo da pagare per tenere la Lega nella maggioranza. Francamente mi aspettavo che per certi versi fossero più di destra. Oggi di fatto la destra non fa che portare avanti processi già in atto: la verticalizzazione del potere, la disintermediazione rispetto agli elettori che non si riconoscono più in partiti e sindacati e la crisi del Parlamento sono processi che vengono da lontano, che vengono acuiti, non invertiti. Anche su altri temi molto importanti c’è una continuità rispetto al passato. L’atlantismo e il liberismo ad esempio. Ma anche verso la Ue non c’è nei fatti l’ostilità promessa (e temuta). C’è una svolta, rispetto alle tradizioni della destra, anche in economia: la destra era portatrice di statalismo, mentre qui ci sentiamo dire che non bisogna disturbare coloro che creano ricchezza». Ci si chiede se c’è anche il tema del fascismo? «Il partito della premier su un pezzo importantissimo della storia d’Italia non ha di fatto una posizione. Nel giorno dell’anniversario della strage di piazza della Loggia, a Brescia, è arrivato uno scarno comunicato nel tardo pomeriggio. Non sto dicendo che gli esponenti di Fratelli d’Italia siano ancora fascisti, ma sono come ammutoliti su parti determinanti della storia del Paese». A riguardo che pericoli ci sono? «Questa destra è pericolosa perché asseconda e accelera il passaggio alla post-democrazia. Portando all’estremo questa tendenza». Mentre, tutto ciò viene raccontato, facendo finta che sia semplice, indolore e soprattutto già deciso dalla maggioranza del popolo… nulla di più falso… Infatti, c’è ancora tempo per dire che c’è un’Italia che non è affatto rappresentata dal palco di piazza del Popolo tenuto a chiusura della campagna elettorale dalla Meloni. Un’Italia popolare, che non esclude, ma include, che non spacca ma unisce, che non trasmette livore, ma forza tranquilla. La Festa della Repubblica del 2 giugno ha coinciso con la fine della campagna per le elezioni europee, tra le più inconsistenti degli ultimi anni. In cui, ancora in piazza del Popolo a Roma, risuonava la battuta della premier: «sono la stronza della Meloni», al comizio del primo partito italiano. La presidente del Consiglio, la leader della destra che governa il paese da venti mesi, è uscita da Palazzo Chigi e ha deciso di celebrare la festa nazionale all’insegna della divisione. Tra chi sta con lei e chi sta contro di lei, tutti gli altri, tutti catalogati “a sinistra”: le opposizioni, i sindacati, i magistrati, gli intellettuali, i giornalisti, perfino i vescovi. A sei giorni dal voto, Meloni provava a trasformare il voto in un referendum sulla sua persona, «un referendum tra due visioni opposte». L’Europa «ideologica, centralista, nichilista», quella degli altri, e la sua, «coraggiosa, fiera, che non dimentica le sue radici». Eccola qui, al naturale, una leader che dovrebbe unire il Paese e invece gioca, ancora una volta, per mobilitare qualche elettore in più, la carta della divisione. È una strategia che spazza via i comprimari, i simboli di alcune formazioni minori, che tentano di “scalare” la ripida parete del 4%. Il tutto mentre intorno ai confini europei la guerra scatenata da Putin in Ucraina arriva a un nuovo salto di qualità, sul cessate il fuoco a Gaza va in scena una macabra partita di poker, e la partita per il controllo delle istituzioni dell’Unione europea è più confusa che mai. La copertina dell’Economist sulle tre donne che si contendono l’Europa raffigura tre ipotesi di destra, tre gradazioni possibili: la tendenza Ursula von der Leyen, la tendenza Marine Le Pen e la tendenza Giorgia Meloni… ma arrivati alla vigilia del voto Meloni ha mostrato di aver scelto e di essere più per la Le Pen che per la von der Leyen. E il risultato potrebbe essere la disintegrazione non formale, ma sostanziale del progetto politico europeo, nel momento in cui più ce ne sarebbe bisogno. È l’arma finale della campagna elettorale, come lo è lo stravolgimento della Costituzione, in assenza di strategie sulle questioni più urgenti e reali, quelle elencate dal governatore di Banca d’Italia Fabio Panetta: lavoro, salari, produttività, crescita, giovani, donne, integrazione degli immigrati. Resta l’ideologia della rivalsa, quella che ha portato in piazza del Popolo l’ex missina Adriana Poli Bortone a definire «leninista» il competitore sindaco di Lecce Carlo Salvemini, uno dei migliori sindaci italiani. Infatti, nello stesso giorno in cui si va alle urne per rinnovare il parlamento europeo, andranno qui da noi al voto 27 città capoluogo. Bari, Cagliari, Campobasso, Firenze, Perugia, Potenza. In queste sei città capoluogo, soprattutto ma non solo, si gioca l’altra sfida fra centrosinistra e destra questo fine settimana. Anche se questa competizione fin qui è praticamente scomparsa dai radar nazionali. Il centrosinistra già ne governa dodici di queste città. L’Obiettivo: è tenere le proprie città e segnare qualche “gol” in trasferta. Ma in questi ultimi giorni di campagna elettorale c’è da comprendere se ancora c’è un’Italia che non sicuramente rappresentata dalla Meloni dal palco di piazza del Popolo. Un’Italia popolare (non populista), che non esclude, ma include, che non spacca ma unisce, che non trasmette livore. Un’Italia che considera la Resistenza, la Repubblica e la Costituzione il bene più prezioso. Per il centrosinistra è una partita non solo elettorale e va ben oltre il voto dell’8-9 giugno. Ricucire il Paese stanco, disilluso, stufo di essere ingannato dal “signore o dalla signora degli anelli” di turno, fino a disinteressarsi del voto. Indubbiamente, è un esercizio difficile che Elly Schlein ha provato a fare prima di tutto nel Pd dove pure il ‘vulcano delle divisioni’ è sempre pronto a esplodere. Il passo successivo saranno i ballottaggi nelle città e poi comincerà la sfida che porta alla seconda metà della legislatura. Quando si confronteranno davvero due visioni di Europa, ma anche due visioni di Repubblica. «Quale Repubblica volete?», chiese Alcide De Gasperi al suo partito nella Roma liberata, nel luglio 1944, nel primo comizio al teatro Brancaccio. Così parla uno statista. La domanda resta viva oggi. Quale Repubblica? La Repubblica fortezza e delle ripicche? O la Repubblica contemporanea dei diritti delle persone e dei doveri di solidarietà, la Repubblica di chi arriva da terre lontane, la Repubblica della libertà? Sabato e domenica si vota anche su questo, come fecero 78 anni fa gli italiani e per la prima volta le italiane. Non c’è alcun dubbio che i partiti siano preoccupati dai possibili distacchi tra loro. Il nervosismo di Meloni certifica la paura per l’avvicinamento che gli ultimi sondaggi davano del Pd. Per il quale se vi fosse il flop di Conte e dei 5 Stelle sarebbe un risultato dal doppio taglio… I segnali di nervosismo da parte di Giorgia Meloni non mancano. Le sparate contro i “radical”, la minimizzazione dell’impatto di un eventuale flop popolare del premierato («se non passa il referendum, chissene importa») sono l’eco di un allarme che suona a Palazzo Chigi. Qualcosa in campagna elettorale sta andando meno bene del previsto, se non addirittura storto. Gli ultimi sondaggi – vietato pubblicarli, ma possono essere effettuati e circolano fra addetti ai lavori – segnalano la frenata di FdI e il calo di gradimento verso la premier. Secondo la media dei diversi istituti di ricerca, la soglia “psicologica” del 30 per cento non è ancora a portata di mano… Al piano di sotto della classifica le cose vanno un po’ meglio. Chi lavora a stretto contatto con la segretaria Pd Elly Schlein mette in chiaro che da quelle parti ai sondaggi «crediamo poco». È scaramanzia: prima delle primarie dem erano pochissimi i sondaggisti che davano vincente la Segretaria, ed erano accolti con generale scetticismo. Comunque, la quota 22,7 (quella del 2019) non sembra più inarrivabile. A dispetto del precedente delle politiche del 2022, con Enrico Letta, la polarizzazione fra Meloni e Schlein stavolta sembra pagare: in giro per l’Italia, viene giurato, si percepisce che il Pd può raccogliere il voto “anti-Meloni”. Oltre al risultato in sé, fra i dati più attenzionati ci sono gli “spread”, ovvero i differenziali negli scontri diretti. Se anche Meloni dovesse prendere una valanga di voti, da capolista FdI in tutte le circoscrizioni, e persino anche molto più di Schlein, capolista Pd solo al Centro e nelle Isole, il risultato ambito, per la principale forza dell’opposizione, sarebbe quello di accorciare le distanze con la principale forza della maggioranza. Così, sempre per il Pd, nella tombola europea l’altro numero delicato è la distanza con il M5s. Secondo le ultime rilevazioni note, sarebbe già una distanza di sicurezza; che fa prenotare a Schlein il posto da capotavola in un eventuale tavolo dell’alleanza di centrosinistra. Ma, attenzione, come accennato sarebbe un risultato a doppio taglio. Se Giuseppe Conte avrà un risultato scarso, non sarà detto, che si rassegnerebbe al ruolo di junior partner dell’alleanza. Anzi, in molti sono convinti che il calo di consensi lo spingerebbe ad insistere sul tasto identitario: quindi a marcare ancora di più le distanze con gli alleati. Ed è un destino parallelo, ancora una volta con l’ex alleato del governo gialloverde. Il timore da questa parte è quello che a destra Meloni e Antonio Tajani hanno nei confronti di Matteo Salvini: un risultato umiliante per il leghista aprirebbe una fase di turbolenza nella maggioranza. Infine, le sfide fra i centristi dell’opposizione. Azione e Stati uniti d’Europa sono impegnati in una doppia fatica. Da una parte acchiappare il 4 per cento, dall’altra prendersi la soddisfazione di prevalere sull’altro, per l’eterna singolar tenzone fra Carlo Calenda e Matteo Renzi. Il leader di Azione ha ammesso, i giorni scorsi in un’intervista a Canale 5, che il suo obiettivo «è superare il 5 per cento, è una soglia psicologica» per «far capire agli italiani che c’è un’alternativa tra votare contro Meloni o votare contro Schlein». Ma poi c’è il significato politico del duello: chi lo vince può rivendicare dell’elettorato per ricucire il centro. Renzi mette le mani avanti: «Le europee servono per contare in Europa non per contarsi in Italia». Replica Calenda, su Radio 1: quelli di Stati uniti d’Europa «non è sicuro nemmeno che dopo andranno insieme». Che sia il punto, lo ammette la stessa Emma Bonino: «Con Calenda il dialogo dobbiamo farlo noi, e sbrigarci pure» …

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