Quirinale: Draghi scende in campo e apre il dialogo con i leader dei Partiti per il suo Colle…

Un Paese che ha il terzo debito pubblico del mondo, 200 miliardi di freschi prestiti europei di cui 122 da restituire, 350 morti al giorno di Covid e una ripresa tutta da consolidare, un Paese così non può permettersi il lusso di un lunedì surreale come quello di ieri. Pareva che gli oltre mille grandi elettori, compresi i capi partito, avessero scoperto all’ultimo momento che c’era da eleggere il presidente della Repubblica per i prossimi sette anni. Sarà anche vero che la politica vuole prendersi una rivincita, ma finora non c’è riuscita. La corsa per il Colle è partita con la prima chiama a Montecitorio con una valanga di schede bianche – a conferma che: “Non ci sono soluzioni semplici”. Ed è ancora presto per i pronostici! Secondo il mio modesto parere i candidati veri sono Draghi e Mattarella, ma siamo ancora all’inizio. La trattativa vera comincia ora, dopo una settimana di giri a vuoto sovrastata dalla candidatura di Silvio Berlusconi. Ora prima del Quirinale c’è un nodo da sciogliere: Chi andrà a Palazzo Chigi se Draghi sale al Colle e come? Una crisi di governo post-voto, magari facendo entrare i segretari di partito e regalando il Viminale a Salvini, è un’avventura assai pericolosa. Questo incastro tra Quirinale e Palazzo Chigi è il vero handicap per la salita di Draghi al Colle. Senza, di ciò sarebbe probabilmente già Presidente della Repubblica. Ma con la sua salita al colle sembrerebbe che non ci sia un modo per tenere in piedi l’Esecutivo. O almeno è difficile senza rompere la maggioranza di unità nazionale su cui si regge l’attuale governo. Servirebbe trovare un modo indolore per creare un governo fotocopia, meno tecnici e più politici. Una compensazione per accontentare vinti e vincitori della partita per il Colle. E pensare che il nuovo presidente della Repubblica era già stato ben individuato, di fatto, a febbraio. Nel febbraio scorso, però. È evidente che, quando Mattarella ha chiamato l’ex presidente della Banca centrale europea a guidare il governo di responsabilità nazionale, sullo sfondo si intravedeva uno schema di successione sul Colle. È altrettanto evidente che i partiti (con qualche eccezione) Draghi non lo vogliono. Eppure in queste settimane non hanno cercato seriamente una personalità in grado di tenere insieme l’attuale maggioranza, e neppure una che possa eventualmente succedere a Draghi a Palazzo Chigi. A questo punto (personalmente) comincio a pensare che Draghi non si possa eleggere facilmente entro la quarta votazione, con due schieramenti opposti e un margine ristretto. E penso che neanche lui voglia seguire un percorso così accidentato. È l’uomo di questa maggioranza, un’aula divisa darebbe il segnale opposto. Così sembra almeno, anche se finora senza risultati. L’elezione al Quirinale è il momento politico più alto. Non c’è niente di male se la politica vuole riprendersi la scena. Ma di rivincite non sono pensabili e per il momento francamente non se ne vedono… e men che meno se ne parla chiaramente… Il premier inizia a dire la sua, vede Salvini, sente Letta e Conte. Emerge la solita ‘bulimia’ salviniana per il potere… Che detta le sue condizioni quasi impossibili per il nuovo governo complicando ulteriormente l’elezione al colle e il quadro politico di questo governo e soprattutto di quello prossimo. Che Draghi fosse il candidato principale per il Quirinale… i Partiti lo hanno sempre saputo dal momento che lui prendeva la guida del governo di unità nazionale… e che oggi questo orizzonte è considerato prioritario rispetto al resto, è il segreto di Pulcinella. La novità, a urne quirinalizie aperte, è che il premier è sceso direttamente in campo come kingmaker di sé stesso. Il senso della giornata è tutto nella notizia battuta dall’Ansa alle 14,22, a mezz’ora dalla prima chiama, in relazione all’incontro che si è svolto tra il Premier e Salvini, accompagnato da un “no comment di palazzo Chigi”. Anche i non addetti ai lavori comprendono che una tale notizia, non smentita, è confermata. I maliziosi deducono che, in fondo, non ha suscitato molto dispiacere la sua diffusione, quasi come in un messaggio veicolato. E poi la notizia di un suo colloquio con Enrico Letta. E poi Conte e la ridda di voci su telefonate e contatti informali… Come sia andato l’incontro, il più complicato, con Salvini, il primo della lunga giornata del leader della Lega, anch’esso nel ruolo di kingmaker alla ricerca di un riscatto personale, dopo l’anno orribile in cui, proprio sul sostegno al governo Draghi, ha subito una pesante erosione di consensi e l’indebolimento del suo ruolo, si ricava dallo sguardo torvo con cui il leader leghista esce da Montecitorio in serata. E dalla conferma di fonti degne di questo nome: “Non bene, ma la questione non è chiusa”. Mentre è andate bene, ça va sans dire, quello con Letta. La questione come evidente è il tema dei temi, o se preferite l’intreccio degli intrecci, attorno alla questione Draghi: “Il governo che verrà dopo”. Non bene perché Salvini, da quel che si capisce, ha chiesto, innanzitutto, un marcato riequilibrio politico, dopo un anno in cui ha subito tutto, sul terreno politico e degli assesti stesso del governo: Lamorgese, Speranza, eccetera eccetera. Nell’anno elettorale non può permettersi un governo che non comprenda sé stesso in un ruolo di primissimo piano. Altrimenti, se il tentativo andrà male, si procederà, come ha affermato in serata, con “proposte del centrodestra nelle prossime ore”. Insomma, si è aperta una trattativa che i politici di una volta definirebbero un “sentiero molto stretto”. Non è chiusa ma, sempre come si sarebbe detto una volta, è “in salita”. È chiaro il tentativo di Mario Draghi, che rivela tutta la difficoltà attorno alla sua candidatura: il superamento di uno iato sempre più profondo. Da un lato un ‘sentiment’, da parte della politica, di “vendetta” rispetto a un anno in cui ha toccato poco palla, ed esacerbato dalla prospettiva di toccarla ancor meno in caso di ascesa del premier al Colle con il passaggio di mano a un “tecnico” a Palazzo Chigi, il famoso semipresidenzialismo di fatto. Bastava farsi un giro nei Palazzi per avvertirla come un’onda montante. Dall’altro l’elemento di pressione impressa sul sistema da Draghi stesso: quel “se ne va se non viene eletto”, percepito dagli osservatori come un umore e una scelta già compiuta, teso a impedire in tal modo un confronto con i partiti, mettendoli davanti al rischio di un burrone del paese, in caso di abbandono del principale elemento di garanzia agli occhi di mercati e cancellerie (a proposito: occhio allo spread, che inizia a salire). Bene, i primi non possono permettersi tale scenario, ma Draghi stesso sa che, un suo abbandono sarebbe una scelta non da Draghi, perché ha incorporato il rischio di un “tradimento” delle ragioni del suo impegno alla salvezza nazionale. Nasce da qui la trattativa, la cui difficoltà sta nel fatto che il premier, in assenza di un regista politico sin dalla formazione del suo governo – il Gianni Letta della situazione – dovrebbe tenere assieme la prospettiva della sua elezione con la formazione del nuovo governo. Garantire cioè una cosa da realizzare nell’altra funzione. Impossibile oltre un certo limite. E infatti, riferiscono fonti degne di questo nome, l’ha rinviata, semmai a quando sarà, in base ai poteri che la Costituzione affida al Capo dello Stato senza entrare nel merito di nomi e assetti. Dunque, la fotografia è questa: un abbozzo di schema – la ricerca di accordo politico per Draghi al Colle – sul cui fallimento, si intravedono già le prossime tappe, preannunciate da una girandola di incontri tra partiti, e non tra coalizioni, segno di spaccature verticali all’interno di esse come quella tra Pd e Cinque Stelle, e nei partiti, con Letta per Draghi e metà del suo partito già oltre, Conte ringalluzzito dall’anti-draghismo, Di Maio prudente. Se va male, la palla passa al centrodestra che proverà a costruire il consenso attorno a una sua candidatura. E il Pd che non ha alternative rispetto a sperare che vada male, per poi tornare a nomi di mediazione, in un Parlamento, il vero convitato di pietra in questa storia, dove anche la lettura dei soli cognomi nelle schede impedisce un minimo controllo del voto. Allacciate le cinture: con Draghi è il caos (sul governo che verrà), il che lo azzoppa in partenza almeno per ora, senza Draghi è il caos, nella rumba di candidati da votare in Parlamento. Che non esclude che a un certo punto si punti lì o che si comincino a fare appelli a Mattarella a tornare precipitosamente da Palermo…

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