Quirinale: si delinea uno scenario da incubo. Draghi sì, Draghi no. Che sta succedendo nella partita del Quirinale? I Partiti ormai senza politica stanno discutendo se Draghi deve salire al Colle… e chi lo sostituirà a Palazzo Chigi? Ma soprattutto danno l’impressione di discutere di come disfarsene…

Per i Partiti l’elezione del presidente della Repubblica è divenuta il terreno di prova per la definizione di nuove alleanze e soprattutto per una ripresa del loro ruolo, del tutto legittimo, ma si comincia male… L’attuale Premier Mario Draghi ovviamente sarebbe un ottimo Capo dello Stato, ma toglierlo da Palazzo Chigi senza aver messo in piena sicurezza il paese è un rischio troppo alto. Senza le riforme, l’Europa fermerebbe il flusso di denaro e il Pnrr sarebbe in pericolo, ancor di più se si accelera la corsa alle urne e con essa l’arrivo delle forze sovraniste e populiste. L’italiano che più di ogni altro sa che cosa rischiamo sta già nel posto giusto, esercita i poteri adeguati e ha l’opportunità grande di scongiurare il disastro. Infatti, gli scenari con Draghi al Quirinale a far compagnia ai corazzieri e a tagliare nastri, e con un punto interrogativo (chi sarà il nuovo Premier a Palazzo Chigi?) non sono affatto rosei. Intanto c’è un complicato intralcio costituzionale da risolvere, con il rischio di avere un inedito doppio interim sia al Colle sia al governo, che certamente non accrescerebbe la credibilità e la serietà italiana ma che semmai ci avvicinerebbe a una repubblica delle banane. Ma anche se si trovasse l’espediente giuridico giusto per far dimettere Draghi da Palazzo Chigi nelle mani di Mattarella e non di sé stesso o di nessuno, resterebbero comunque aperte tutte le questioni politiche e pratiche sul come continuare il processo di salvataggio del paese dal Covid e di rinascita economica nazionale avviato con efficacia dall’attuale governo. L’importanza del Capo dello Stato è ovvia, in quanto è il rappresentante simbolico della nazione e il detentore di un grande potere regolatore informale. Ma oggi la elezione di Draghi al vertice dello Stato si è caricata di significati politici ulteriori: è divenuta il terreno di prova per la definizione di nuove alleanze tra Partiti, e di una possibile ripresa del loro ruolo politico, dopo che di fatto non hanno saputo gestire l’emergenza Covid e sono stati di fatto “commissariati” da un Presidente del Consiglio esterno a essi, come Draghi. Ma se le grandi manovre per la Presidenza della Repubblica, vogliono essere l’avvio di una stagione del tutto legittima di rinnovato protagonismo dei partiti, si comincia male: le forze politiche non sembrano in grado né di trovare un accordo né di imporre un uomo a maggioranza. La ridda di nomi che viene fatta circolare è segno di debolezza e confusione, oltre che funzionale a bruciare questo o quello. C’è quindi il rischio che aumenti il discredito in cui i partiti versano, e che il messaggio politico ai cittadini sia di ancora maggiore debolezza e casualità. E per di più è possibile che se sarà eletto Draghi alla presidenza la coalizione di governo si spacchi e si vada a elezioni (anticipate o no) senza che non si veda il varo di una nuova legge elettorale e la modifica dei regolamenti di un Parlamento che uscirà indebolito dall’amputazione, di sapore populista, a cui è stato sottoposto. In realtà, per dimostrare la propria esistenza in vita e la propria utilità, i partiti non avrebbero che l’imbarazzo della scelta, se volessero davvero fare politica. Il Paese è impegnato in un’emergenza che non passa, che sfibra parte della popolazione e che alimenta vecchie e nuove difficoltà di tenuta della società – insicurezza e paura impattano sulla qualità delle vite individuali e della convivenza e hanno ovvi riflessi nel rapporto con le istituzioni, anch’esse di fatto trasformate durante la pandemia. La ripresa economica, pur ottima, esibisce interne contraddizioni che non mancheranno di pesare socialmente a partire dal confronto scontro con il sindacato sulla riforma fiscale (sciopero generale del 16 dicembre indetto da CGIL e UIL) ma nel mondo del lavoro restano aperte la questione-salari, e la qualità dell’occupazione che lascia a desiderare, mentre la non-occupazione rimane alta, soprattutto fra le donne e al Sud. C’è poi un problema formativo enorme non solo per la Dad ma (al di là della buona volontà dei singoli) per il disorientamento del mondo scolastico e universitario su modalità e finalità dell’istruzione e della ricerca. Ci sono questioni internazionali che ci interpellano da vicino, a livello geopolitico e geoeconomico – dai rapporti con il Nord-Africa a quelli con la Ue, dalle questioni poste dalla Russia alla qualità della leadership degli Usa. C’è da gestire una transizione economica verso un modello produttivo verde o almeno carbon neutral, che avrà ancora e soprattutto ulteriori ripercussioni occupazionali… Lo spazio per un’azione politica di analisi, ideazione, proposta, dibattito, conflitto, c’è – ben al di là del Pnrr. E se la politica implica un discorso pubblico su mezzi e fini dell’azione collettiva, sull’orientamento del potere, si impone anzi, come sempre e più che mai, la necessità della politica. Il nostro Paese ha conosciuto fasi di forte impegno politico quando i partiti erano in grado di inquadrare obiettivi chiari: la ricostruzione postbellica, il passaggio al centrosinistra, la lotta al terrorismo, l’ingresso nell’euro. Quello che manca oggi è l’individuazione non propagandistica di obiettivi per governare una fase di transizione dagli sbocchi imprevedibili – come se la politica si esaurisse, a sinistra, in episodiche prese di posizione sui diritti individuali e, a destra, nella rendita elettorale derivante dal disagio sociale: è da questa mancanza che nasce un’offerta politica provvisoria, fluttuante, emotiva, superficiale, che disorienta più che orientare, e che resta non credibile e non creduta… Non si parla di piani di riforma della scuola, della pubblica amministrazione, non si confrontano progetti di sviluppo, modelli di difesa e di politica internazionale – il dibattito politico si riduce alla ormai insopportabile rissa sui vaccini e sui Green Pass. Quello che manca è insomma una politica che prenda sul serio sé stessa, e il proprio dovere di determinare democraticamente il destino e l’assetto di un Paese. Secondo un vecchio motto, nessuno va tanto lontano come chi non sa dove sta andando. Oggi, però, va anche messo in conto che chi non riesce a proporsi alcuna meta corra il rischio di smarrirsi per via. Mario Draghi sarebbe un ottimo Capo dello Stato, ovviamente, ma se dovesse traslocare da Palazzo Chigi al Quirinale, come vorrebbero le forze politiche anti italiane e anti europee, ma anche i minimizzatori della pandemia, i mitomani che si divertono a intestarsi manovre politiche e, purtroppo, anche qualcuno del giro draghiano, sarebbe fortemente a rischio la speranza che l’Italia possa uscire definitivamente dalla crisi e riesca a rilanciare il sistema produttivo ed economico… I finanziamenti del Pnrr, quantificati dalle istituzioni europee in oltre 200 miliardi di euro, non per merito ma a causa del governo Conte due, non sono ancora arrivati nelle casse dello Stato, anzi arriveranno di sei mesi in sei mesi fino al 2026 ma a patto che si approvino riforme ben precise e si completino puntualmente i progetti presentati nel piano nazionale di ripresa e resilienza. Già adesso, con Draghi premier, la macchina burocratica e politica fatica a tenere il passo delle riforme e dei progetti da realizzare, ma l’autorevolezza dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi è una garanzia esterna di mantenimento degli impegni presi e una certezza interna di effettiva esecuzione di buona parte dei progetti. I partiti potrebbero trovare un accordo per formare un nuovo governo post Draghi necessariamente molto più debole dell’attuale sia in termini di forza parlamentare sia nella capacità di prendere decisioni e di attuarle, con il probabile risultato di non riuscire a fare le riforme promesse all’Europa e di non realizzare i progetti senza i quali i soldi del Pnrr resteranno a Bruxelles. L’alternativa a un governo politico senza Draghi sono le elezioni anticipate, peraltro la soluzione più naturale e anche quella intimamente più ricercata da chi vorrebbe promuovere Draghi al Quirinale al solo scopo di rimuoverlo dal potere esecutivo di Palazzo Chigi. Oggi i sondaggi dicono che le elezioni anticipate sarebbero vinte dai due partiti più nazionalisti e sovranisti d’Europa, sodali dei nemici giurati della democrazia liberale e delle istituzioni comunitarie, oltre che largamente irresponsabili sul fronte della pandemia e fiancheggiatori dei no vax e dei no green pass. Staccare la spina al governo più europeista del continente, guidato da un leader riconosciuto e rispettato in tutto il mondo, per accelerare consapevolmente la formazione di una maggioranza populista e antieuropea, mentre si continua a dipendere dai fondi stanziati dall’Unione, è un esempio formidabile di eutanasia di un paese. Un tentativo di farsi male, ma male davvero, che una classe dirigente adulta, non importa se di destra o di sinistra o di centro, dovrebbe tentare di scongiurare. Il dopo Draghi sarebbe comunque uno scenario da incubo sia per l’economia delle imprese sia per la salute degli italiani, che ricadrebbe peraltro nella responsabilità piena dell’eventuale Presidente della Repubblica Mario Draghi, il quale al Quirinale non avrebbe il potere esecutivo necessario a risolvere la situazione di cui invece dispone oggi. Ma se c’è qualcuno che conosce esattamente il pericolo reale che correremmo se anticipassimo di un anno lo scenario populista, senza peraltro aver prima messo in sicurezza il paese, questo qualcuno è Mario Draghi…

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