Sorriderà probabilmente fino al 2023 Giuseppe Conte. Di Maio esulta sorridendo per un Sì scontato, il Partito democratico salva la Toscana, mentre Meloni si prende le Marche. Ma l’Italia del 20 e 21 settembre 2020 è sempre stra-divisa e galleggia a mala pena su una situazione economica alquanto difficile in attesa del salvataggio del Recovery Fund. Ciascun partito ha le sue ferite da leccarsi. Come al solito tutti dicono di aver vinto: Luigi Di Maio porta a casa un Sì scontato, la destra prende una regione in più, il Partito democratico sventa l’attacco alla Toscana ed è complessivamente ben messo in carreggiata, Giorgia Meloni si prende una regione (Marche), a Silvio Berlusconi va bene tutto e persino Matteo Renzi (risultato ininfluente in ogni dove) festeggia il suo amico Eugenio Giani. Poi vai a vedere meglio e capisci che nei dati ci sono diverse illusioni ottiche. In generale, l’Italia del 21 settembre 2020 resta stra-divisa e ciascun partito ha ormai profonde ferite da leccarsi: che è esattamente la ragione per cui il governo di Giuseppe Conte può galleggiare tranquillo, visto che la spallata della destra proprio non riesce e che Pd e M5s stanno benissimo accucciati nei loro divani, e se il governo non ce la dovesse fare sarà solo per colpa sua e non per il protagonismo dei partiti. Il quadro politico è dunque destinato a restare fermo per non dire stagnante, al netto delle possibili diatribe sul rimpasto. Il Partito democratico ha certamente mostrato una capacità di resistenza che non si prevedeva, dopo mesi e mesi di scarsa iniziativa politica autonoma. Nicola Zingaretti ha retto molto bene anche grazie a una efficace drammatizzazione della situazione in cui è arrivato persino a evocare il pericolo del fascismo creando un clima che ancora risveglia antichi riflessi. Ma a dirla tutta il Pd si prende Campania con un Vincenzo De Luca venato di caudillismo e soprattutto la Puglia con un Michele Emiliano che davvero con la storia del Pd non ha da tempo nulla da spartire. Resta che la leggendaria “alleanza strategica” con il M5s o non esiste o dove esiste va maluccio, come in Liguria: dalla buona performance del Pd si ricava semmai che la strada giusta sarebbe quella di lavorare su se stesso, mantenendo fede alle promesse fatte illo tempore dallo stesso segretario, «cambierò tutto». Ecco, adesso che abbiamo la dimostrazione della sua esistenza in vita, al Pd corre l’obbligo di aprirsi, rinnovarsi, prepararsi a guidare uno schieramento riformista in grado di battere la destra alle prossime elezioni. Se invece si siederà sugli allori di una relativa vittoria, accontentandosi della nuova solidità della sua segreteria, continuando a sperare negli errori degli altri e coltivando il potere per il potere avrà perso una occasione storica. La destra perde smalto. Al netto della valanga-Zaia (la cui lista personale surclassa quella della Lega), balza agli occhi che Matteo Salvini non vince più. Fallita la spallata in Emilia, gli è andata malissimo anche in Toscana. L’unico governatore in più che va alla destra è della Meloni. Al Sud continua a non toccare palla. Questo “fattore S” (Salvini) può diventare una palla al piede: e potremmo scommettere che Meloni, e anche Berlusconi, glielo faranno notare. Si è aperta dunque una competizione per la leadership del centrodestra, in una coalizione che resta forte ma con qualche evidente segno di precoce logoramento. I grillini come partito sono in crisi. Evidentissima. Forse oggi il M5s è più vicino al 10 che al 15%. Sono una cosa sempre più evanescente, se non fosse per una certa confidenza con il potere. Ma è probabile che debbano cedere qualcosa (il Meccanismo europeo di stabilità?) e che il tempo dell’egemonia nel governo è alle spalle. Loro s’intestano la vittoria del Sì al referendum, primo tassello di uno svilimento dell’istituto parlamentare secondo il disegno allucinato di Gianroberto Casaleggio e invece raccontato da Di Maio e Zingaretti come tappa iniziale di un serio processo riformatore. Il popolo ha detto Sì a questo impianto e poco importa stabilire quanto abbiano giocato in questo la pancia e la demagogia. Ma va evidenziato che il No ha combattuto a mani nude una bella battaglia e quasi un italiano su tre l’ha riconosciuta come valida. È una base per costruire qualcosa di nuovo. Anche il riformismo ha di che riflettere: le performance di Italia viva e +Europa sono tutt’altro che esaltanti. C’è tutta un’area che fatica a ritrovarsi nei partiti attuali e attende una nuova offerta politica. È un percorso non facile e probabilmente non breve. Ma al momento è l’incognita a regnare su quest’area…
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