USA 1: c’è il rischio che gli Stati Uniti diventino una superpotenza illiberale…

Non c’è più alcun dubbio: la retorica “America First” di Donald Trump e la sua vittoria quattro anni fa hanno dato cittadinanza a una corrente di pensiero pericolosa per l’ordine liberale internazionale, l’insieme di istituzioni e norme che hanno governato la politica mondiale dalla fine della seconda guerra… Per le elezioni presidenziali del prossimo 3 novembre, i repubblicani sono molto agitati, sono convinti di perdere e di perdere male (ma erano convinti della sconfitta anche nel 2016, però stavolta di più), i senatori provano a giocarsi l’ultima carta della giudice di ultradestra e si appellano agli istinti più razzisti degli elettori, ma già contemporaneamente chiedono contributi per “arginare” la più radicale presidenza di sempre. È questo il momento, in cui «si tirano fuori i coltelli, i finanziatori scappano e il candidato tenta di segnare all’ultimo minuto», e lo dicono anche molti repubblicani. Donald Trump fa tristi comizi dal balcone, Mike Pompeo annuncia una mossa decisiva ed è la diffusione di nuove e-mail di Hillary Clinton. E Trump ha finalmente ricevuto degli endorsement di spicco, Johnny Rotten che fu il frontman dei Sex Pistols, una nipote di Osama bin Laden, e, secondo alcune fonti, i Talebani che però smentiscono. Il New York Times pubblica nuove rivelazioni su frodi fiscali di Trump ma nessuno se ne occupa, un pezzo di opinione pubblica è già convinta che lui sia un mega-mariuolo ma l’altro pezzo, non lo vuole sapere. I repubblicani puntano tutto sulla nomina di Amy Coney Barrett (giudice ultra conservatrice che mette in mostra i suoi 7 figli) alla Corte Suprema. Ci provano nonostante i senatori positivi al Covid e il generale marasma. E provano, come possono, per la prima volta dopo anni pavidissimi, a distanziarsi da Trump. Il leader del Senato Mitch McConnell ha dichiarato che non va alla Casa Bianca da mesi, facendo capire che li considera “covidioti”. Il senatore del Texas John Cornyn ha criticato Trump per avere sottovalutato il virus, sperando nell’appoggio dello Houston Chronicle (non è servito). L’altro senatore texano, Ted Cruz, teme una batosta elettorale di dimensioni post-scandalo Watergate. Marco Rubio della Florida già manda e-mail ai finanziatori e discetta su Facebook sui possibili pericoli della presidenza Biden (molti repubblicani già chiedono ai loro finanziatori, soldi per contrastare «la presidenza più liberal della storia americana», e citano Kamala Harris per creare agitazione). Ma l’opinione di molti repubblicani è che a questo punto Trump non sarà rieletto… Ma negli Usa, c’è anche chi di interroga se basterà la sconfitta di Trump, a dare di nuovo respiro ad un’America che ha perso molto della sua cultura liberista a favore di una cultura illiberale ormai alquanto  diffusa? Molti sperano che con la sconfitta di Donald Trump il processo si arresti da sé, ma ad esempio ci sono studiosi come Michael Beckley, professore associato di Scienze politiche presso la Tufts University, che in un lungo articolo sostiene che si tratta di una «speranza mal riposta». «L’era dell’egemonia liberale degli Stati Uniti», sostiene, «è un’illusione generata dagli ultimi bagliori della Guerra Fredda. L’approccio di Trump alla politica estera, al contrario, è stato la norma per la maggior parte della storia degli Stati Uniti. Quindi la sua impronta potrebbe durare molto più del suo mandato». Secondo Foreign Affairs la rivista su cui è stato pubblicato l’articolo di Beckley, l’approccio di Trump, che oggi esercita ancora una forte attrazione per molti americani, diventerà (pur senza Trump)ancora più seducente in futuro per gli americani, quando due tendenze globali come il rapido invecchiamento della popolazione e l’aumento dell’automazione modificheranno le dinamiche di potere internazionali a favore degli Stati Uniti. Paradossalmente, sostiene lo studioso, le stesse tendenze che rafforzeranno la potenza economica e militare dell’America renderanno più difficile per Washington mantenere la leadership dell’ordine liberale, e allo stesso tempo faranno diventare l’approccio di Trump (pur senza di lui) più attrattivo. «Come il ventesimo secolo», scrive Beckley, «il ventunesimo secolo sarà dominato dagli Stati Uniti. Ma mentre il precedente “secolo americano” era costruito su una visione liberale del ruolo degli Stati Uniti nel mondo, ciò a cui potremmo assistere oggi è l’alba di un secolo americano illiberale». L’approccio “America First” non nasce con Donald Trump, ma ha radici profonde nella storia americana, ricorda. Prima del 1945, gli Stati Uniti perseguivano i propri interessi per lo più in modo aggressivo e con scarso riguardo per gli effetti sul resto del mondo. Erano sì paladini di valori liberali come l’indipendenza e la libertà, ma li applicavano in modo discrezionale; insomma «non erano isolazionisti», spiega Beckley, «ma si tenevano a distanza». Questo anche perché la posizione geografica rendeva di fatto inattaccabile il nuovo Stato, ricco di risorse naturali e in piena esplosione demografica. Le cose sono cambiate con l’inizio della Guerra Fredda, quando gli Stati Uniti hanno avuto la necessità di trovare alleati in grado di fronteggiare la minaccia sovietica. Ecco perché Washington ha cominciato a offrire garanzie di sicurezza e libero accesso ai mercati in cambio del sostegno politico e militare. Sostenere una guerra per l’egemonia globale è costoso, ma gli americani hanno accettato il fardello anche in virtù della componente ideologica della contesa: la lotta con l’Unione Sovietica non era soltanto militare, ma toccava tutti gli aspetti della vita quotidiana del Paese. Caduto il nemico, è venuta meno questa componente, e molti cittadini americani hanno cominciato a pensare che dopotutto occuparsi di quanto accade a migliaia di chilometri dalle loro coste è uno spreco di risorse. I sondaggi di questi anni indicano chiaramente che oltre il 60 per cento degli americani vorrebbe che gli Stati Uniti si concentrassero soltanto sul prevenire attacchi terroristici, proteggere i posti di lavoro in patria e ridurre l’immigrazione illegale. La metà degli intervistati è contraria all’invio di truppe in difesa degli alleati, e quasi l’80 per cento è favorevole ai dazi protezionistici. Non si tratta di un’aberrazione, spiega Foreign Affairs, ma di una corrente che ha sempre attraversato la cultura politica americana. «Sarebbe confortante addebitare soltanto a Trump l’attuale posizione nazionalista del paese», scrive Beckley, «ma il sostegno degli americani all’ordine liberale del dopoguerra è stato traballante per decenni». Nei prossimi anni, il mondo potrebbe assistere a un progressivo irrigidimento della politica statunitense sul modello “America First” anche senza Donald Trump. Sarebbe la fine del multilateralismo e l’inizio di un mondo più pericoloso e aggressivo. Da garante dell’ordine liberale e leader del mondo libero a Stato isolazionista e tendenzialmente disinteressato al destino degli altri Paesi. Gli Stati Uniti, secondo Foreign Policy, sono vicini a un bivio, e potrebbero cambiare profondamente il proprio approccio alla politica estera nei prossimi decenni. A meno che i leader americani non si rendano conto che non è negli interessi di Washington perseguire una politica troppo egoista…

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